Martedi' 16 Novembre, 2004 |
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RIFORMARE I CERVELLI
Le rivoluzioni, almeno a
parole, possono forse garantire il diritto all'uguaglianza ma mai, come
disse uno scrittore sovietico dissidente, il diritto all'intelligenza. Il
povero dissidente, credo fosse Ilia Eremburg, era suo malgrado alle prese
con una rivoluzione, noi invece ci siamo imbattuti ieri solo in una meno
eroica ma meno pericolosa riforma nel settore dell'immigrazione; il concetto
è comunque lo stesso: le nuove leggi posso garantire maggiori controlli, ma
sulla loro efficacia grava sempre e solo il grado di intelligenza di chi le
applica.
La scorsa settimana non ho dubitato per un momento
quando il ministro dell'Immigrazione Judy Sgro ci ha detto praticamente che
l'intero settore è nel caos. Ieri ho capito anche perché.
Andiamo con ordine.
Ieri ho accompagnato un amico alla frontiera americana di Niagara Falls per
ritirare il permesso di lavoro.
Appena si arriva alla frontiera ci dicono che
c'era qualcosa di sbagliato. Tutto previsto. Spieghiamo: la legge è cambiata
dal 29 ottobre. Si informa, ritorna. È vero. Ma nessuno aveva avvertito i
doganieri.
Tutto a posto? Sì, anzi no. Manca il
pagamento di 150 dollari.
Abbiamo pagato, diciamo. Mostriamo lo scontrino:
assegno "certified", come una marmitta Midas. Sì, risponde, ma nel computer
non risulta.
Ribattiamo: ma i soldi sono già nelle mani
del governo.
Risposta: sì, ma non sono qui. È evidente: nemmeno loro si fidano del
governo. Capiamo. Ripaghiamo. Sperando di ottenere il rimborso di uno dei
due versamenti.
Otteniamo il visto di lavoro e ci accingiamo a
tornare a Toronto. Da tenere presente che siamo in territorio canadese. «No,
è senso unico, dovete andare dall'altra parte». Facciamo presente che
«dall'altra parte» ci sono gli Stati Uniti. «Sì, ma vi faranno rientrare
subito in Canada».
Si parte quindi per gli Stati Uniti. Sperando
anche di trovare una toilette che non vedevo in territorio canadese.
Attraversiamo il ponte. Dopo una fila di circa 15
minuti, arriviamo al sospirato casello: «Documenti» ci chiede l'agente,
senza guardarci in faccia. «Perché volete entrare negli Stati Uniti?», ci
chiede.
«Noi non vogliamo entrare, vogliamo uscire».
Spieghiamo la situazione del visto.
Ci invita a parcheggiare la macchina indicandoci
due agenti «che vi daranno istruzioni». Parcheggiamo e ci invitano ad
entrare in un ufficio dell'immigrazione americana.
«Perché volete venire negli Stati Uniti?»
Spiego la situazione del "senso unico". Capisce.
Solo a metà: «Dobbiamo prendere le impronte digitali e la foto. Vi chiamiamo
fra poco».
Passa una quarto d'ora (approfitto di una
toilette made in Usa) e ci invitano a presentarci di fronte allo sportello
principale per un altro interrogatorio. A quel punto sono metà incazzato e
metà bin Laden.
Nessuna impronta digitale e no mug shots. Solo
una terrificante domanda: perché volete venire negli Stati Uniti?
Risponde il mio amico. Lo ringrazio.
Finalmente possiamo andare. Anzi, quasi. «Andate
a prendere la macchina - ci dice - gli agenti vi diranno dove andare. Lì mi
troverete con i vostri documenti». Dopo una gimcane tra alcuni blocchi di
cemento, finalmente posso fare l'agognato "U-turn" verso il Canada. Da
lontano vedo l'agente con i nostri documenti in mano.
Riattraversiamo il ponte.
C'è la dogana canadese.
Documenti! Sempre senza guardare in faccia.
Perché siete andati negli Stati Uniti?
«Non ci siamo andati, ci avete mandati», spiego con le
mascelle ormai indolenzite a causa di un sorriso che sta mascherando la mia
frustrazione
E, rivolgendosi all'amico: ce l'hai il permesso
per venire in Canada?
«Certo, vi abbiamo appena detto che siamo andati
a prenderlo dai tuoi colleghi un'ora fa», rispondo indicando l'ufficio
dall'altra parte della strada.
«Ma allora - ci ha chiesto con un'aria piena di
sufficienza - perché siete andati negli Stati Uniti, invece di tornare
direttamente in Canada?»
A quel punto devi decidere se rischiare
l'arresto, o tornare a Toronto sano e salvo. Ho scelto per la seconda
ipotesi.
Ripartiamo per Toronto: almeno sono andato alla
toilette americana. |