La sua nomina a ministro della Difesa 365 giorni fa suscitò
molte perplessità: cosa ci fa un economista alla guida dell'esercito? Gli
economisti conoscono certamente il costo dei carri armati ma, se ne metti uno
a fianco di un frigorifero, lo riconoscono forse solo per esclusione. Stiamo
parlando ovviamente del ministro della Difesa John McCallum, ex professore
universitario ed ex Chief economist della Royal Bank.
Gli interrogativi sulla competenza di un economista in
questo ministero sono giustificati solo in parte. Infatti, come mai nessuno si
chiede, ad esempio, cosa ci fa un avvocato come Anne McLellan al ministero
della Sanità? Le perplessità di molti, a distanza di un anno, non sembrano
essere più giustificate. Per fare quindi un bilancio, abbiamo intervistato lo
stesso McCallum e gli abbiamo chiesto, tra l'altro, come si fa a trasformare
un economista di successo in ministro della Difesa.
Ministro McCallum, innanzitutto, come mai ha deciso di
cambiare in modo radicale la sua attività professionale?
«Di certo non l'ho fatto per soldi. Qualche volta mia moglie dice che l'ho
fatto perché sono pazzo. Una cosa è certo: non mi pento».
Insomma tutto bene?
«Una problemino c'è: posso trascorrere meno tempo con la famiglia. E ciò mi dà
fastidio. Posso comunque dire che sto facendo un lavoro che, al paragone,
rende tutti gli altri molto noiosi».
Ci dica come è cominciato
«Sono stato avvicinato prima delle scorse elezioni dal primo ministro e dai
suoi collaboratori. All'epoca non ci pensavo, ma poi, considerando l'interesse
del partito e soprattutto visto che Canadian Alliance voleva portare avanti un
politica che non condividevo, decisi di impegnarmi in prima persona».
Cosa non condivideva?
«Tante cosa, ma tre in particolare: la proposta della flat tax, la
decentramento dei poteri alle province e la proposta di referendum sui
programmi sociali».
Fu un cambiamento radicale.
«Devo dire che mi piace la varietà. Prima professore universitario, poi alla
Royal bank, ora in politica. Qualcuno dice che non sono capace di avere uno
stesso lavoro per molto tempo».
Andare in politica, va bene, ma alla Difesa...
«Voglio innanzitutto precisare che non ho avuto alcuna promessa di entrare in
politica in cambio di un ministero. Infatti non sono entrato subito. È chiaro
che non avevo alcuna idea che sarei finito alla difesa».
Come ha reagito quando il primo ministro l'ha chiamato
un anno fa proprio oggi?
«Sorpresa totale, ma anche compiaciuto per avere l'opportunità di gestire un
ministero importante».
Qual è stata la difficoltà più grossa che ha dovuto
superare?
«Innanzitutto cercare di capire. Si tratta di un ministero con un bilancio
di 13 miliardi di dollari e circa 100.000 dipendenti., Poi si doveva capire la
loro cultura, la loro mentalità».
Crede di esserci riuscito?
«Non si può mai dire di aver capito tutto, credo però di avere capito
abbastanza per portare avanti una riforma».
Ci dia qualche dettaglio.
«Vi sono cinque aree di intervento. In primo luogo quella umana. In questo
settore il mio predecessore Art Eggleton ha fatto moltissimo. Ora non si parla
più di stipendi da fame. Inoltre voglio correggere la cosiddetta
"dismemberment issue". Cioè se un soldato perde una gamba in servizio non ha
diritto ad alcun compenso. Il compenso va solo a chi ha un grado da colonnello
in su. Questo sarà cambiato».
E poi?
«C'era il problema dei finanziamenti. Era diventato chiaro che non c'erano i
fondi sufficienti per fare ciò che ci si chiedeva di fare: mancava un miliardo
di dollari. Abbiamo ora ottenuto 800 milioni di dollari in più col nuovo
bilancio mentre ci siamo impegnati a racimolare gli altri 200 ristrutturando
alcuni programmi esistenti».
Ed i rapporti con gli Stati Uniti?
«Quello è il terzo punto. I due Paesi hanno una rapporto speciale. Dal
1940 abbiamo cooperato per difendere il continente; prima contro il nazismo,
poi la minaccia sovietica, ora il terrorismo. Dobbiamo continuare a fare
questo ma nel modo appropriato».
Include in questo terzo punto anche la richiesta
americana per il programma di difesa balistica con missili statunitensi?
«Questa è la seconda parte del programma e una decisione
verrà presa presto se dobbiamo o meno iniziare una trattativa con gli
americani».
Quanto presto?
«Prima della fine di questa sessione parlamentare».
Andiamo al quarto punto.
«Riguarda l'Afghanistan. Vogliamo rispettare il nostro impegno di
cooperazione per l'iniziativa con la Germania e che vede l'impego di 1.800
soldati».
Abbiamo anche gli elicotteri.
«Questo è l'ultimo punto. Voglio infatti far convergere le due iniziative
e fare un solo contratto, invece di due. Avremo gli elicotteri prima con meno
rischi».
Qualche sera fa le ho chiesto, durante una conversazione
privata, una opinione sull'ascesa del dollaro e lei mi ha risposto che non ne
era al corrente. Ha dunque abbandonato il settore economico?
«Certamente non dimentico questo settore. Quando le ho detto che non
sapevo cosa stesse succedendo al dollaro dicevo la verità, ma non credo che
nessun economista sia mai stato in grado di prevedere cosa succede alla valuta.
Se lo sapessero sarebbero tutti miliardari».
Ma fanno sempre previsioni.
«Quando uno lavora per una banca, è pagato per presentare una sua visione
ai clienti, ma in realtà nessuno crede che gli economisti sappiano esattamente
cosa stia accadendo. Sento che alcuni dicono che ora il dollaro raggiungerà i
75 centesimi americani. Alcuni, scommetto, sono gli stessi che solo qualche
mese fa dicevano che il dollaro sarebbe sceso sotto i 60 centesimi. No, tutto
questo non lo rimpiango».
Devo comunque ammettere che, fare l'economista in un
grattacielo al centro di Toronto, e poi tuffarsi nelle strade di Markham
stringendo mani a manca ed a dritta a persone che non conosce, costituisce un
cambiamento alquanto radicale.
«Sotto certi aspetti lo è, sotto altri no. Come professore sono stato a
contatto con gli studenti, mentre come economista ho avuto rapporti con
clienti e la stampa».
Ma ora è differente.
«Certo, i media ad esempio sono più aggressivi con i politici».
Cambiamento radicale o meno, lei sembra essere riuscito
nella metamorfosi. Qual è il segreto?
«Semplice, per fare politica devi diventare un vero politicante, nel senso
buono della parola».
E lei crede di esserlo ora?
«Ho fatto progressi sotto due punti di vista. Uno nei rapporti con i
colleghi del caucus, l'altro con la gente nel distretto.
Cioè?
«Ho avuto ad esempio persone che hanno cercato di togliermi il controllo
del distretto, ma non ci sono riusciti in quanto ho messo insieme un team
molto forte e leale. Io appoggio Paul Martin e abbiamo battuto i sostenitori
degli altri candidati per 60 a uno. Ho un distretto con migliaia di iscritti e
sono in crescita. Per fare questo l'accademia e l'economia servono a ben poco».
Insomma nessun rimpianto
«Non voglio dire che mi sto godendo ogni secondo di questa attività, posso
però dire che mi piace moltissimo ciò che sto facendo e mi sto anche
divertendo».
Ha detto che le piace cambiare spesso. A quando il
prossimo cambiamento?
«Non mi piacciono i piani a lunga scadenza. Quando facevo il professore
avevo pensato che non avrei mai lavorato in una banca. Sei mesi dopo ero alla
Royal Bank. Fino alla primavera del 2000 non avevo mai pensato di entrare in
politica. Alla fine dell'anno ero deputato. Per ora mi piace ciò che sto
facendo e sono molto impegnato. Non ho altri progetti».